Illustrissimi by Nello Ajello;

Illustrissimi by Nello Ajello;

autore:Nello Ajello; [Ajello, N.]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: eBook Laterza
ISBN: 9788858117583
editore: edigita
pubblicato: 2006-11-14T23:00:00+00:00


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Mino Maccari. L’ultimo individuo

«In errore fu chi disse – che di Grosz sono fanatico. – Preferisco Henri Matisse, – Renoir mi è più simpatico». Mino Maccari non amava parlare della propria formazione artistica se non scherzando. Da bambini, diceva, tutti usano i pastelli: io ho continuato. E invece – in contrasto con questo amabile understatement – il pittore di Colle Val d’Elsa era un acutissimo giudice d’arte. È stato Carlo Ludovico Ragghianti, in un libro intitolato «Il Selvaggio» di Mino Maccari, ad attribuirgli la scoperta precoce di alcuni fra i pittori italiani più celebrati del Novecento italiano, da Carrà a Rosai a De Pisis. «Non si può dimenticare», aggiungeva, «che per anni la conoscenza nostra di Morandi è stata affidata al ‘Selvaggio’», cioè alla rivista inventata, scritta, titolata, istoriata da Mino Maccari fra gli anni Venti e Quaranta. Non stupisce, perciò, trovare nel catalogo di una mostra di Maccari una serie di lettere indirizzate a Giorgio Morandi. Lettere «da pittore a pittore». Piene di consigli, notizie, appunti di lavoro.

Scherzando scherzando, infatti, Maccari lavorava. Senza accorgersene, si direbbe. «Il lungo dialogo di Maccari con il suo tempo» (così s’intitola la mostra cui accennato) è un riassunto sedimentato di questo suo attivismo. Duecentottantasette opere, che vanno dal 1921 al 1989 – anno in cui il pittore morì novantunenne –, percorrono una delle esistenze più singolari e istruttive del Novecento italiano. E, insieme, consentono di assistere a una narrazione attenta e pungente dei «casi nazionali». È possibile, ci si domanda assistendo allo spettacolo, testimoniare settant’anni di cultura d’un paese, raccontarne le mode, ispezionarne i regimi, senza ripetersi mai? Ed ecco la risposta, frantumata in centinaia di personaggi ilari e stravolti, figurine ammiccanti, sagome parodistiche: sì, Maccari ci è riuscito.

Non è stato soltanto un osservatore longevo. È stato soprattutto un diagnostico precoce. Aveva diciannove anni quando partecipò alla Grande Guerra come ufficiale d’artiglieria di campagna (un «campagnino», diceva lui). Ne aveva ventiquattro alla marcia su Roma, un’avventura da boy-scout cui si mescolò al grido di «Roma o Orte» per sottolinearne la fatuità casereccia e l’oltranzismo incosciente. Aveva compiuto ventisei anni allorché diede inizio all’avventura del «Selvaggio», che del fascismo fu insieme amante deluso e persecutore tenace. Il tutto con una disposizione d’animo irresistibilmente bizzarra. «Coltivavamo», raccontava il pittore, «un dannunzianesimo di provincia con goccioline mussoliniane. Facevamo una specie di fleboclisi all’Italia con l’illusione di riformarla». Osservando alcuni dipinti della serie Dux il visitatore si troverà immerso a capofitto nel fascismo «secondo Maccari». Per lui, quel regime è una specie di soufflé imbottito di facce di gerarchi. Li trafigge da ogni lato. Li disegna marziali e morbidi, più pomposi di quei borghesi dell’Italietta che hanno voluto annientare a sorsate di olio di ricino. In una parola, li trova impresentabili. Poveri di stile. «Solo al mare, al lago, o al fiume», proclama uno dei suoi stornelli, «il gerarca ha del costume».

Dalle pareti della mostra di Grosseto ci viene incontro un testimone attento. Un diarista repentino. Un cronista metafisico. Un faceto storico del presente. Passando, nel dopoguerra, da un regime di stendardi e pennacchi a una democrazia in tonaca, il sorriso non lo abbandonò.



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